L’avvocato Antonella Boschi ha venti anni di esperienza acquisita nella consulenza e assistenza giudiziale e stragiudiziale nella redazione di pareri e atti in ambito civile. È diventata collaboratrice di AIFA Lombardia APS e di AIFA Onlus nazionale. (www.aifalombardia.org) (www.associazioneaifa.it) e si occupa di problematiche sia civili che penali per comportamenti di adulti e minori con disturbo di ADHD e comorbidità associate.

Aree di competenza: assistenza in materia di ADHD, DSA, BES

Per minori e le loro famiglie

Lo studio si occupa di aiutare i minori e le loro famiglie, che hanno difficoltà connesse con disturbi ADHD, DSA nei rapporti con la scuola e con i propri compagni (mobbing scolastico dei professori, vittime di bullismo, bulli, stalking, cyber bullismo e cyber stalking). Collabora con le famiglie per la gestione dei rapporti con gli assistenti sociali e il Tribunale dei minori in campo civile e penale.

Per maggiorenni e adulti

Lo studio si occupa di aiutare adulti e giovani adulti con disturbi ADHD e relative comorbidità (disturbo Antisociale, disturbo oppositivo-provocatorio problemi di aggressività) e dipendenze associate (gioco, alcol, droghe) nelle relazioni di lavoro, nella relazione coniugale, nelle relazioni sociali. Inoltre, offre la propria competenza in campo civile e penale nell’aiuto delle famiglie con parenti affetti da tali disturbi ponendosi come interlocutore con assistenti sociali, forze dell’ordine, magistrati, psichiatri di CPS, SERD e Psichiatria Giudiziaria.

Per quanto riguarda la descrizione del disturbo ADHD e le sue comorbidità si rimanda ai siti di AIFA Lombardia APS e nazionale.

La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per violazione dei diritti umani nei confronti di un soggetto con malattia psichiatrica detenuto in carcere

3 giugno 2022

La Corte Europea di Strasburgo in data 24/01/2022 [1] ha emesso sentenza di condanna dello Stato italiano sulla base di un ricorso presentato da un cittadino italiano che aveva chiesto il risarcimento del danno a lui provocato per violazione dell’art. 5 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.

La Convenzione Europea (CEDU), ratificata da tutti i paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa (tra cui anche l’Italia), è un trattato internazionale che stabilisce i diritti fondamentali dell’uomo che devono essere salvaguardati in tutti i paesi firmatari della Convenzione stessa. Essa inoltre istituisce la Corte Europea con sede a Strasburgo a cui tutti i privati possono rivolgersi per tutelare un loro diritto fondamentale violato da uno degli stati aderenti.

Il ricorso può essere presentato davanti alla Corte, entro sei mesi dalle sentenze definitive nazionali.

La Corte pertanto esamina gli atti processuali nazionali e lo svolgimento del processo analizzando esclusivamente se vi siano state delle violazioni dei diritti fondamentali dell’uomo in contrasto con la Convenzione stessa. Il ricorso nel caso Sy contro Italia è stato presentato da un cittadino italiano affetto da disturbo bipolare aggravato dall’abuso di sostanze, che aveva commesso plurimi reati di molestie nei confronti dell’ex-compagno e resistenza a pubblico ufficiale con aggressione e percosse. La vicenda processuale che la Corte di Strasburgo ha esaminato può essere così sintetizzata: il Tribunale italiano, dopo aver disposto la perizia psichiatrica sul ricorrente che ne conferma la malattia, lo condanna alla detenzione in REMS ( Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) per un anno, da eseguirsi quanto prima. La REMS, però, non viene trovata; di conseguenza il soggetto viene rilasciato per mancanza di posti. A seguito di richiesta avanzata dal Pubblico Ministero al Tribunale di sorveglianza, viene riesaminata la pericolosità sociale del ricorrente, che viene confermata dal SERD (Servizio per le dipendenze). Il Tribunale pertanto sostituisce la detenzione in REMS con la misura della libertà vigilata da scontare in una comunità terapeutica. Il ricorrente però, una volta entrato, si allontana dalla comunità immediatamente e commette altri reati. Egli quindi affronta un altro processo penale in cui il Tribunale convalida l’arresto per furto aggravato e resistenza a pubblico ufficiale e dispone la custodia cautelare in carcere. Il ricorrente tenta il suicidio in carcere e lo psichiatra del carcere redige perizia medica d’incompatibilità del malato con la struttura carceraria. Il Tribunale di sorveglianza pertanto dispone l’immediato collocamento del reo nel servizio carcerario per pazienti psichiatrici. Il ricorrente però chiede al Tribunale di sorveglianza una rivalutazione della sua pericolosità sociale e la possibilità di entrare in comunità. La rivalutazione della pericolosità sociale viene effettuata dal dipartimento di salute mentale, il quale decide che il ricorrente, avendo avuto un miglioramento della sua condizione mentale, poteva essere soddisfatto e quindi collocato in una comunità di tipo residenziale al posto della REMS. La Corte Europea, con provvedimento cautelare, chiede al Governo italiano di trasferire il ricorrente presso una REMS o altra struttura comunitaria/terapeutica di tipo residenziale. Il Governo italiano informa però la Corte che il trasferimento è impossibile per mancanza di posti nelle REMS. In risposta alle osservazioni del Governo il ricorrente afferma che la Comunità S. Maria del Centro italiano di solidarietà, è disposto ad accoglierlo. il Tribunale di sorveglianza revoca la carcerazione e dispone la misura di sicurezza della libertà vigilata da scontare presso la suddetta comunità, ove il ricorrente doveva seguire il percorso terapeutico individualizzato.

Il giorno dopo l’ingresso nella comunità, il ricorrente scappa e si rende irreperibile. Interviene quindi il pubblico ministero che dispone l’arresto e la custodia in REMS che viene finalmente trovata.

Perché il cittadino italiano ha voluto ricorrere alla Corte Europea dei diritti dell’uomo?

Perché egli ha ritenuto che nella sua vicenda processuale ci sia stata la violazione dell’art. 5 della Convenzione, il quale recita che : “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge: […..] (e) se si tratta della detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo”.

La Corte pertanto ha dovuto analizzare se il ricorrente, affetto da malattia psichiatrica ( la Convenzione usa un termine desueto “alienato” che ormai oggi è sostituibile con malattia mentale e/o psichiatrica) abbia subito una detenzione regolare. L’organo giudicante ha statuito negativamente, perché l’intervallo intercorso dal suo provvedimento cautelare con la richiesta di collocamento in REMS e l’effettivo spostamento è stato eccessivamente lungo. Periodo che il malato è rimasto in carcere.

La Corte di Strasburgo ha pertanto giudicato irregolare la detenzione in carcere del ricorrente, e di conseguenza ha ritenuto che l’Italia abbia commesso la violazione di un diritto umano fondamentale.

Un reo malato di mente, statuisce la Corte Europea, non doveva rimanere in carcere ma doveva essere collocato in una struttura ove la sua patologia potesse essere curata, perché la carcerazione rende più afflittiva la sua condizione rispetto ad un reo non malato di mente. A nulla pertanto sono valse le giustificazioni del Governo italiano relativamente alla mancanza di posti in REMS, poiché uno Stato non può addurre motivazioni organizzative per giustificare un trattamento disumano non in linea con i principi della Convenzione dei diritti dell’uomo.

La sentenza ha avuto una notevole risonanza in Italia, in quanto è stata emessa proprio quando anche la nostra Corte Costituzionale [2] stava decidendo in materia di REMS, ritenendole di fatto incostituzionali in quanto non garantiscono l’incolumità delle persone terze di fronte ai comportamenti del malato del mente, e chiedendo

l’intervento urgente del legislatore per porre rimedio a tale situazione. Di fatto l’Italia deve riformare le REMS, in quanto incompatibili con i nostri principi costituzionali, e nello stesso tempo non può trattenere le persone malate di mente in carcere perché violerebbe i principi della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Quindi dove andrebbero collocate le persone malate di mente che commettono reati? Attualmente non hanno un luogo e restano a carico delle famiglie, o abbandonati a sé stessi.

Anche le famiglie di persone affette da ADHD vivono questa situazione, perché chi ha questo disturbo associato anche ad altri disturbi quali la bipolarità grave, la personalità borderline, la condotta antisociale, in alcuni casi commette reati. Ma il problema in questi casi, a mio parere, è di contemperare l’esigenza di giustizia a quella sanitaria. Esiste oggi in Italia una struttura che sia sanitaria ed anche contenitiva? Purtroppo no, perché le REMS sono strutture solo sanitarie gestite dai Servizi sanitari regionali, e il carcere è una struttura solo detentiva gestita dal ministero della Giustizia (ci sono reparti psichiatrici all’interno del carcere, ma sono previsti per i rei che manifestano problemi psichiatrici dopo l’entrata in carcere e non prima). I tentativi fatti dalla magistratura, dalle forze dell’ordine e dai servizi sociali per superare questo impasse mediante accordi di collaborazione e protocolli applicativi non hanno portato a molto.

Le ragioni dello stallo vanno individuate, a mio parere, nel cambiamento dell’approccio terapeutico-sanitario al malato di mente la cui cura deve essere extra muraria, cioè non più all’interno di una struttura contenitiva-ghettizzante, bensì affidata ai vari dipartimenti per la salute mentale del territorio ed il malato deve essere consenziente alla cura. Ad oggi le strutture sanitarie, che possono gestire i malati di mente non consenzienti alla cura, sono unicamente emergenziali, poiché per un tempo breve possono trattenere il malato in stato di scompenso psicotico ( attraverso un TSO, trattamento sanitario obbligatorio, o ricoverando il malato presso una struttura ospedaliera psichiatrica di diagnosi e cura: gli SPDC). Il periodo massimo del ricovero è un mese, al termine del quale il malato viene rimesso ai servizi territoriali con un piano terapeutico individuale (PTI), che potrà essere attuato solo con il suo consenso. Il malato di mente anche quando commette un reato di grave pericolosità sociale deve ugualmente esprimere il consenso alla cura, e nessuna REMS, in quanto come riportato in precedenza, è gestita solo dalla sanità locale, può trattenere il malato contro la sua volontà, perché oltre che contrario alla legge, ha una organizzazione tale per cui non ci sono i mezzi per contenere tali soggetti. In base ad un decreto ministeriale [3], nelle REMS deve essere presente solo personale sanitario (il direttore è uno psichiatra), e non è stata prescritta la presenza delle forze di polizia penitenziaria. Il decreto prevede inoltre che i posti in ogni REMS non siano più di 20, così da garantire la degenza ad un nucleo piccolo di malati, perché, da un lato non ci siano più strutture sovraffollate come nei superati Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), dall’altro sia garantito il rapporto di fiducia tra medico e paziente, volto ad ottenere il consenso alla cura. Questo però comporta che non sia stato risolto il problema dei malati non consenzienti che commettono reati, perché le REMS, che sono anche una misura di sicurezza, dovrebbero comunque adempiere ad una funzione custodiale per garantire l’incolumità pubblica e quindi trattenere i malati-rei non consenzienti alla cura. Le considerazioni appena fatte hanno sempre suscitato le critiche aspre dei sostenitori del superamento degli OPG, poiché il grave problema che si verificava in passato era che le persone che vi entravano, rischiavano di rimanerci a vita ( i c.d “ergastoli bianchi”). Questo rischio però sembra essere superato dal fatto che la legge istitutiva delle REMS [4] ha previsto che : “Le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima”. L’assurdo in cui ci troviamo oggi è che il paziente psichiatrico che commette reati anche contro la persona, essendo prosciolto per infermità di mente, non trovando posto in REMS o non potendo neanche essere trattenuto nelle comunità di ricovero e cura, molte volte torna in famiglia oppure in carcere dove non dovrebbe stare.

Questa è la situazione che vivono famiglie che hanno figli e parenti in queste condizioni, come AIFA Onlus ( Associazione italiana famiglie ADHD). Ho assistito, come legale, a situazioni in cui le famiglie che si sono rivolte ai servizi sociali, ai dipartimenti di salute mentale, ai servizi per le dipendenze , non hanno ottenuto nulla di più che sentire che era il paziente che doveva andare presso di loro per farsi curare o assistere, quando il paziente non intendeva assolutamente collaborare, in quanto sostanzialmente incapace di rendersi conto della sua situazione mentale e di dare il consenso come la legge richiede. Purtroppo questa situazione l’ho potuta riscontrare anche in ragazzi adolescenti o giovani adulti, i quali hanno tutto il diritto di essere curati per avere una vita normale.

Anche la vicenda che è stata portata avanti alla CEDU è emblematica, perché il ricorrente, affetto da malattia psichiatrica e da abuso di sostanze, ha tenuto un comportamento tipico della sua situazione patologica. Due sono i passaggi significativi della vicenda, che meritano di essere richiamati. Il primo, quando non essendo stato trovato il posto nella REMS gli viene concessa la libertà vigilata da eseguire presso una comunità terapeutica. Il ricorrente, in un primo momento pur entrando in comunità, non vuole rimanervi, ed esce, in assenza di un obbligo di trattenerlo senza il suo consenso, e una volta fuori commette nuovi reati. Il secondo, quando ottiene lo spostamento dal carcere, a seguito di perizia psichiatrica sulla sua incompatibilità con il regime carcerario, nell’altra comunità terapeutica che lui stesso aveva indicato; il giorno dopo l’ingresso, scappa e si rende irreperibile. Ora come si fa a pretendere il consenso da un soggetto che non è in grado di darlo, perché non si rende conto delle proprie azioni? Ormai in Italia bisogna affrontare il tema della malattia mentale in pazienti non consenzienti che vengono abbandonati a loro stessi, così causando un’altra violazione costituzionale al principio di uguaglianza tra chi riesce a curarsi e chi non riesce a farlo. Quale solidarietà politica, sociale ed economica hanno queste persone? Oggi però siamo ad una svolta perché ormai la situazione è ingestibile, e il legislatore deve al più presto e con la maggiore urgenza intervenire.


Avv. Antonella Boschi

[1] Sentenza Corte Europea dei diritti dell’uomo 24/01/22 (caso Sy contro Italia)

[2] Corte Costituzionale 27/01/2022 n. 22

[3] DM 01/10/2012 n. 64680 in Gazz.Uff. 19/11/2012 n. 270

[4] Art 1 comma 1 quater D.L. n. 52/2014 conv. con mod. da L.17/02/2012 n.9

Le famiglie con parenti affetti da ADHD che commettono reati si trovano ad affrontare notevoli problemi su più fronti

6 maggio 2022

Ultimamente, lavorando come consulente legale AIFA Lombardia APS , mi sono imbattuta in famiglie con parenti (soprattutto figli) a cui era stata diagnosticata l’ADHD nell’infanzia e che in adolescenza o in età adulta diventano ingestibili a causa anche delle cosiddette comorbidità associate all’ADHD stessa come il disturbo oppositivo-provocatorio, il disturbo border-line e le condotte-antisociali, condotte che sono anche aggravate dall’uso di sostanze. In pratica commettono reati gravi anche contro i famigliari, quando questi tentano di impedire l’uso di sostanze o porre dei limiti alla vita senza regole che i figli mettono in atto.

Le famiglie in questione si trovano assolutamente impreparate e spiazzate, perché malgrado si rendano conto che i figli hanno problematiche comportamentali diagnosticate dai Servizi psichiatrici di competenza, non vengono “presi in carico” dai vari CPS (Centri di Prevenzione della Salute mentali) perché assolutamente oppositivi alle cure e a qualsiasi trattamento. Pertanto si assiste ad un vero e proprio palleggio di competenze tra CPS, SERD ( Servizio per le dipendenze), assistenti sociali del territorio, tutte strutture preposte alla risoluzione di problematiche di questo tipo, ma che non riescono in alcun modo a frenare il comportamento del ragazzo, in quanto è lui e solo lui che deve dare il consenso alla cura e ciò sia che il soggetto sia minorenne che maggiorenne. (Casi particolari sono i minori di anni 12 alla cui famiglia sia stata tolta la potestà genitoriale dal Tribunale dei minorenni e il ragazzo sia stato affidato ai Servizi sociali del territorio).

I disturbi del comportamento

Il disturbo ADHD, il disturbo oppositivo-provocatorio e la condotta anti-sociale sono definibili una malattia mentale? L’ICD ( il manuale delle malattie, compreso quelle psichiatriche, redatto dall’organizzazione mondiale della Sanità) tutti questi disturbi li ha classificati come malattia psichiatrica.

Pertanto chi commette un reato ed è affetto da tali disturbi, potrebbe essere definito non imputabile totalmente o parzialmente (a secondo della gravità accertata da una perizia psichiatrica) e quindi finire in una comunità curativa/riabilitativa o in una REMS (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza).

Ma essendo le persone con questi disturbi molto spesso non consenzienti alle cure non vengono trattenute presso le strutture terapeutiche. In molti casi le famiglie sono costrette a denunciarli all’autorità giudiziaria con la conseguente apertura di un procedimento penale in modo tale che il figlio venga costretto coattivamente al ricovero in una struttura di recupero e cura o ad una REMS.

Neanche la condanna di un giudice pone rimedio a tale tipo di situazione, in quanto ad oggi le REMS così come le strutture di ricovero e cura sono di esclusiva gestione e competenza del Ministero della salute e quindi soggiacciono ai requisiti previsti per la sanità mentale che vuole il consenso alla cura. Purtroppo ho assistito al calvario di famiglie che sperano che i propri figli siano accolti nelle strutture preposte alla cura, ma una volta entrati dopo tre/quattro giorni questi non possono essere trattenuti perché non danno più il consenso a rimanerci, e questo anche se è stata emessa una sentenza di condanna o un’ordinanza cautelare di un giudice.

Pertanto che cosa sono costretti a fare i giudici? Dovendo giudicare persone che reiterano comportamenti delinquenziali, a volte anche molto pericolosi, che continuano a tornare in libertà, dispongono la custodia in carcere.

Misura che per il nostro ordinamento penale non è quella idoneo alla persona con disturbi psichiatrici. Molti sono i ricorsi dei condannati al Tribunale di Sorveglianza per poter uscire dal carcere ed essere messi in luoghi appropriati, ma con ciò si ritorna al punto di partenza.

Intervento della Corte Costituzionale

All’inizio di quest’anno è stata emessa una sentenza di notevole importanza (Corte Cost. 27/01/22 n. 22) per quanto riguarda il problema delle persone affette da disturbi mentali che commettono reati. Ritengo che la stessa abbia un notevole impatto anche per le persone affette da ADHD. La sentenza in questione ha evidenziato profili di incostituzionalità in quanto l’assegnazione ad una REMS non può essere configurata come una misura di natura esclusivamente sanitaria, ma deve essere anche una misura limitativa della libertà personale, in quanto deve avere anche una funzione di contenimento della pericolosità sociale per i soggetti che abbiano commesso reati e siano in situazione di vizio totale o parziale di mente.

Cura del malato e salvaguardia della collettività, sono i due criteri che devono essere bilanciati tra di loro. Pertanto la Corte Costituzionale ha sollecitato un intervento legislativo sulle REMS e sulle strutture di ricovero e cura dal punto di vista organizzativo, ma il legislatore dovrà tenere conto, a mio parere, anche del principio a base del quale sono state strutturate che impone il consenso alla cura, in quanto le famiglie e i pazienti non consenzienti alle cure non possono più essere abbandonati a sé stessi.

Avv. Antonella Boschi

Per chi volesse approfondire i contenuti della sentenza della Corte Costituzionale c'è l'articolo: La corte costituzionale si pronuncia sulle REMS (residenze per l’esecuzione delle misura di sicurezza)

Punto sull'ADHD

10 giugno 2021

Collaborando con l’AIFA (Associazione Italiana Famiglie ADHD) ho riscontrato parecchi problemi di natura legislativa, giudiziaria e sociale per la tutela delle persone affette da questo tipo disturbo e per le loro famiglie.

In primo luogo, la scarsa conoscenza del disturbo stesso porta a fraintendimenti sui comportamenti tenuti da tali soggetti, che spesso e volentieri vengono “etichettati” come svogliati, fannulloni, aggressivi, disturbatori. Molto spesso ci si trova ad avere a che fare con persone che non sanno che cosa sia il disturbo e come gestirlo, come ci si trova anche a dover constatare che mancano le strutture adeguate.

Esempi pratici vengono dal mondo scolastico, non tutti i professori, presidi, e dipendenti scolastici sono a conoscenza del problema, per cui abbiamo ragazzi che per il loro atteggiamento poco sociale (soprattutto nell’attenzione alle regole: puntualità, rispetto delle norme scolastiche, difficoltà di socializzazione con i compagni) vengono trattati male e con sufficienza da tutti, provocando nei minori e nelle famiglie una grandissima difficoltà nel percorso scolastico, con alti casi di abbandono della scuola in età ancora minorile.

Tutto ciò poi si riversa nel passaggio alla fase adulta in quanto la mancanza di studi adeguati non permette una collocazione lavorativa adeguata. Pertanto, si rischia che queste persone, per riempire il tempo, si arrangino con lavoretti instabili e sono sempre sul limite della legalità. Ad aggravare la situazione poi vi è l’uso di sostanze tossiche che impattano in modo violento con la già difficoltosa gestione dei loro comportamenti. Si assiste purtroppo a casi di minorenni che iniziano a fumare cannabis in giovane età sia come rituale di appartenenza al gruppo di coetanei sia per stabilizzare l’ansia o l’irrequietezza insita nel loro disturbo sia, magari, nell’affrontare le ore scolastiche o le interrogazioni. Nello stesso tempo, inoltre, alcuni di loro spacciano (soprattutto per guadagnare soldi utili all’acquisto del fumo che loro consumano) senza rendersi conto che offrire o vendere la “cannabis” ad altri compagni non è un gesto di amicizia ma un reato. Complicano pertanto ulteriormente la loro vita, in quanto continuano a ricevere dei giudizi su di loro stessi estremamente sfavorevoli con conseguenze negative sulla loro già bassa autostima. A questo circolo vizioso, pertanto, si aggiungono conseguenze emotive che possono sfociare nell’aggressività, nell’ansia patologica, nella depressione ed a altri disturbi psichiatrici che hanno un esordio proprio nell’età adolescenziale. Si precisa inoltre che vi possono essere differenze tra femmine e maschi: le prime reagiscono più frequentemente con comportamenti autolesionisti (tagliarsi, tentare il suicidio) mentre i maschi reagiscono con l’antisocialità (danneggiamenti di vario genere)

Nella tarda adolescenza (o età dei giovani adulti) spesso le persone con ADHD vanno incontro a vari livelli di disadattamento. È molto frequente, per questi giovani, che si sviluppino comportamenti delinquenziali o che la disregolazione dovuta all’ADHD si esprima in famiglia con forte aggressività, minacce e violenze verso i genitori. Genitori che non vengono adeguatamente supportati, dalle autorità e dalle strutture sanitarie, nell’aiuto e nella gestione dei loro figli, e che si trovano a dovere affrontare casi di intimidazione dei figli nei loro confronti fino ad essere costretti a denunciarli alle autorità pubbliche per far tutelare la propria incolumità. Ragazzi che non si rendono conto di perpetrare reati di estorsione, minacce, lesioni verso i loro famigliari o resistenza e minaccia a pubblico ufficiale se intervengono le forze dell’ordine.

Tutto questo aggravato da serie lacune di “comunicazione” tra strutture sanitarie per l’infanzia e strutture per l’adulto. Se anche un ragazzo viene “preso in carico” dall’ UONPIA (Unità Operativa Neuropsichiatria Infanzia Adolescenza) e poi non viene correttamente gestito il suo passaggio da questa al CPS (Centro Psico Sociale - psichiatria adulti), non viene garantita una “continuità terapeutica” e il ragazzo con ADHD viene lasciato a sé stesso. Spesso, nelle gravi problematiche finora descritte, è coinvolto anche il SERD (Servizi per le Dipendenze) e la situazione si complica ulteriormente.

Vi è poi un’aggravante: quando un ragazzo diventa adulto (a 18 anni) viene applicata tutta la normativa sulla loro piena capacità d’intendere e volere, estromettendo la famiglia da ogni tipo di rapporto, pertanto solo i ragazzi che “collaborano” con i reparti psichiatrici (CPS) vengono “curati”. Chi non lo fa non viene seguito, lasciando il problema totalmente sulla famiglia, sulla scuola, sul lavoro, sulla società. Molto spesso questi giovani adulti, con un quoziente intellettivo nella norma, rifiutano la diagnosi di ADHD e non ammettono di avere difficoltà legate alla sfera psichica e compensano il loro disagio come possono (gioco, sostanze, alcol).

In tutto questo va sottolineato che le strutture sociali mancano in maniera grave di risorse finanziarie e di personale oltre alla (imbarazzante!) scarsa o nulla conoscenza del problema ADHD. In quest’assenza di adeguato supporto delle strutture pubbliche si creano circoli viziosi che possono portare la persona con ADHD ad avere gravi problemi con la giustizia. Ad esempio, gli assistenti sociali intervengono in caso di minori ma non possono proseguire l’intervento fino all’età adulta per cui passano la competenza al CPS che si trovano magari adulti con problemi di dipendenza e che passano al SERD. Ancora una volta, i giovani adulti, lasciati a sé stessi e seguiti solo farmacologicamente dalla psichiatria degli adulti, finiscono per sottrarsi alle terapie e spesso ripiegano su comportamenti delinquenziali fino a quando non vengono commessi reati e allora se ne deve occupare la Psichiatria Giudiziaria.

Ogni ente ha il suo “pezzo” di competenza che non tiene conto della persona nella sua totalità. Così si assiste ad un intervento dello Stato solo quando vengono commessi reati e il soggetto diventa socialmente pericoloso: allora in questo caso intervengono forze dell’ordine e magistratura.

Da anni l’Associazione AIFA sta svolgendo un importante ruolo di formazione per la conoscenza del disturbo tra le famiglie e nelle scuole, ma sta diventando oltremodo difficile divulgare la conoscenza dell’ADHD dell’adulto in quanto sarebbe necessario coinvolgere non solo medici, avvocati, magistrati, forze dell’ordine, ma anche il Ministero della Sanità ed il legislatore per renderli sensibili ad un disturbo ancora così poco conosciuto in Italia anche se così disastroso se non adeguatamente curato.

Di seguito potete trovare un’intervista rilasciata a Il Sole 24 Ore da esperti in ADHD in vari campi oltre che della presidentessa nazionale di AIFA onlus sulle problematiche fino ad ora esposte. Per il problema più strettamente legale il mio intervento se interessa è a minuti 20:23 e ad ora 1:05:04.

Intervista in diretta web del Sole 24 Ore - ADHD nell’adulto: come identificarlo e gestirlo)

Chiunque ha bisogno di consigli, aiuto, pareri può rivolgersi ai referenti AIFA Lombardia APS e AIFA Onlus agli indirizzi mail e telefonici riportati sui siti dell’associazione stessa.

AB